Rispetto agli Ingauni[1], i Romani avevano sicuramente una tradizione molto legata all’olio di oliva; essi lo utilizzavano principalmente per dare gusto ai cibi insieme al sale, all’aceto e agli aromi naturali e come condimento; tuttavia, l’olio e la pasta dell’oliva erano utilizzati anche come lubrificante per alcuni macchinari, come detergente, come combustibile e per l’illuminazione delle abitazioni. Come risaputo veniva adoperato anche per la cura del corpo (sempre gradita ai Romani!), durante le cerimonie e i riti sacri, attribuendogli così un valore spirituale oltre che di benessere.[2]
Possiamo supporre che probabilmente nella Valle Steria, così come nel Ponente ligure, i Romani avessero importato questa tradizione per l’olio e per la coltivazione dell’olivo. Non ci sono delle prove empiriche di ciò, in quanto le uniche informazioni risalite ai nostri giorni fanno riferimento solo ad un santuario pagano in un bosco intitolato al dio Borman. Nonostante questo, la tesi che in queste zone si praticasse l’olivicoltura è confermata anche dalle dichiarazioni del IV sec. di Sant’Ambrogio che evidenziavano come l’ulivo fosse coltivato nell’Italia settentrionale nelle zone dove il clima era mite, e quindi in Liguria.[3] Probabilmente la diffusione dell’oliva taggiasca, oggi la più diffusa nella regione, è inizia proprio in questo periodo: infatti i monaci provenienti da Lérins (Costa Azzurra) esportarono questa pianta nei pressi di Taggia, da qui la denominazione taggiasca, con eccellenti risultati sia dal punto di vista della produzione che della qualità dell’olio estratto.[4]
Nell’Alto medioevo sicuramente la situazione globale delle terre ligure peggiorò, in gran parte a causa delle onde barbariche che portarono distruzione e incuria delle coltivazioni che invece sopravvissero nella Valle Steria grazie ai monasteri che riuscirono sia a continuare la cura delle terre sia ad insegnare alle popolazioni rimaste le tecniche di produzione. Nel Tardo Medioevo invece, dopo l’annessione ai territori dianesi dei possedimenti dei Faraldi, la situazione agraria fu più felice. Nel 1363 venne stilato un vero e proprio regolamento che conteneva norme civili e criminali per la comunità e in questo quadro normativo venne disciplinata anche l’olivicoltura organizzando la raccolta dei frutti nei terreni dei vicini[5] e soprattutto la gestione dei gumbi, ovvero dei frantoi. Questi ultimi dovevano rispettare una serie di regole, ad esempio, sulla divisione della rendita e sulla gestione dell’acqua utilizzata durante processo, per non incombere in multe amministrative. Anche se l’olivo non era la coltivazione più diffusa era sicuramente quella più in espansione.[6]
Durante il Cinquecento vi è ancora la conferma di questa situazione: generalmente tutto il Ponente ligure si concentrava nella viticultura che garantiva buoni margini di profitto ma anche la produzione di olio non era trascurabile. Non vi sono delle informazioni specifiche sulla Valle Steria che possono darci un’idea della percentuale di produzione agricola ma alcune testimonianze, come quella di Monsignor Agostino Giustanini, che raccontano come nella valle dianese la produzione d’olio fosse eccellente. Si può dedurre che nel 1500 l’agricoltura fosse molto diversificata nei prodotti e che di conseguenza i terreni non fossero destinati a una singola produzione bensì a diversi tipi di coltura.[7]
Occorre aspettare fino al 1643, grazie alla “caratata” dei terreni, per ottenere delle informazioni precise sulla produzione agricola del territorio. Possiamo affermare che in quel periodo la coltura più diffusa era sicuramente l’olivo (48% dei poderi) che superava la produzione di vite (8%) anche se capitava che fossero coltivati insieme (7%). La caratata ci dà indicazioni anche delle zone dove l’olivicoltura era più diffusa, ovvero nella parte settentrionale della vallata, e del numero dei frantoi funzionanti, ben 109.[8]
Nei periodi successivi mancano delle mappature come quelle del 1643 ma si possono comunque ottenere delle informazioni dai registri del Magistrato dell’olio della Repubblica di Genova. La Repubblica a metà Seicento si stava espandendo e aveva un bisogno continuo di beni e prodotti di prima necessità, come appunto l’olio; per ottenere ciò, imponeva ai produttori di “vendere” una parte di barili di olio alla Superba, ad un prezzo inferiore a quello di mercato[9]. A seconda quindi del gettito d’imposta, si può ricavare un’immagine piuttosto fedele della coltivazione dell’olivo: le zone più intensamente ulivate erano Riva, Tovo e Tovetto e la produzione era gestita dai piccoli produttori piuttosto che dai grandi proprietari terrieri.[10]
Il Settecento fu un anno critico per l’olivo perché, ad inizio secolo, una grande gelata colpì gli alberi in tutto il Ponente Ligure riducendoli drasticamente, l’unica eccezione fu proprio la Valle Steria che, grazie al suo clima mite, riuscì a salvare la maggior parte delle piante e, a differenza delle valli vicine, nel giro di poche stagioni riprese la coltura a pieno ritmo. Questa condizione sarà sfruttata dai produttori locali e contribuirà alla specializzazione di queste terre nell’olivicoltura che continuerà fino al raggiungimento del suo apice alla fine del XVIII secolo.[11]
Dall’Ottocento si assistette però ad un cambio di rotta, se è vero che la produzione aumentò grazie alle innovazioni tecnologiche, anche il costo delle giornate di lavoro si alzò; questo renderà la coltivazione dell’olivo sempre più costosa e, di conseguenza, sempre meno redditizia. Dalla metà del secolo vi è la definitiva decadenza della produzione e il conseguente abbandono dei gumbi. La tendenza regressiva si è mantenuta fino ai nostri giorni: oggi solo pochi agricoltori producono olio extravergine di olive taggiasche di eccellente qualità.[12]
[1] Questo è il nome con la quale venivano definite le popolazioni che si stabilirono in Liguria, basso Piemonte e parte della Toscana prima dell’avvento dei Romani
[2] G. Fedozzi, “L’ulivo, l’olivicoltura e l’oleotecnica nell’antichità”
[3] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[4] Olive taggiasche: storia, caratteristiche, usi delle famose olive liguri - Olio Abbo
[5] Questo non poteva avvenire nei giorni di pioggia e nei quattro giorni successivi
[6] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[7] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[8] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[9] Questo accadeva a meno che il coltivatore non avesse olivi o non ne avesse abbastanza da superare la produzione di due barili all’anno
[10] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[11] G. Fedozzi, “Olivicoltura e frantoi nella Valle Steria ieri e oggi”
[12] E. Della Valle, “Considerazioni economiche sulla coltivazione dell’olivo il Liguria”